A partire dalla sede, dalle dichiarazioni d’apertura, e dall’aria che tira, questa COP parte come atteso: malissimo. E finirà come le altre: peggio
Nel discorso di apertura della conferenza il presidente azero ha detto: “Petrolio, gas e materie prime sono un dono di dio”; ed ha aggiunto che hanno arricchito il suo paese. Ilham Aliyev nel suo intervento alla COP29 di Baku (capitale dell’Azerbaigian) ha sottolineato ricordandolo, che l’Unione Europea gli aveva chiesto di fornire più gas, dopo la crisi energetica del 2022. “Qualsiasi risorsa naturale, petrolio, gas, eolico, solare, oro, argento, rame: queste sono risorse naturali e i paesi non dovrebbero essere incolpati di averle e di fornirle ai mercati, perché i mercati ne hanno bisogno”; e tanto per rafforzare il concetto ha aggiunto: “I fake news media degli Stati Uniti, il principale produttore mondiale di combustibili fossili, farebbero meglio a guardarsi allo specchio”.
Touché?
Il Segretario delle Nazioni Unite António Guterres, che non ha mai nascosto d’essere fortemente schierato affinché vengano urgentemente rinforzate le politiche di transizione energetica, quando addirittura ancora non avviate, ha potuto rispondere con un timido vagito che “la transizione non è un’opzione”.
E tutte le associazioni, pubbliche e private, Onlus, ONG, comitati e movimenti, che hanno chiesto da mesi di depennare dalle COP i paesi produttori di petrolio? Non pervenute perché censurate.
E i più grandi tra i grandi assenti, Cina e Stati Uniti?
Ricordo brevemente cos’è una COP, che sta per Conference of the Parties. La Convenzione Quadro sui Cambiamenti Climatici delle Nazioni Unite (in inglese UNFCCC, United Nations Framework Convention on Climate Change), fu firmata nel 1992, a tutt’oggi è il punto di riferimento per la regolamentazione giuridica sovranazionale in ambito climatico. È un trattato che fa da strumento operativo per il contrasto al cambiamento climatico, così come definito appunto da UNFCCC: attributed directly or indirectly to human activity that alters the composition of the global atmosphere and which is in addition to natural climate variability observed over comparable time periods. Sono 197 i paesi che hanno, ad oggi, ratificato il trattato.
Per chi volesse approfondire qui potrete trovare una serie di articoli sul cambiamento climatico e non solo.

La Convenzione non è un accordo legalmente vincolante ma ogni paese firmatario ha degli obblighi sanciti, alcuni validi per tutti ed altri solo per i paesi più sviluppati. Ogni COP, riunita annualmente, è l’organo supremo di controllo delle parti che hanno ratificato tale accordo, che lo esercita esaminando l’attuazione della convenzione. Alle COP possono partecipare come osservatori anche altre agenzie delle Nazioni Unite, rappresentanti di organizzazioni internazionali, enti, agenzie e ONG.
Le negoziazioni relative al tema del cambiamento climatico si svolgono in seno e durante ogni COP. La più famosa delle conferenze fu COP21, del 2015, che si chiuse con il famoso Accordo di Parigi, quello che prevedeva un impegno collettivo per mantenere il riscaldamento globale al di sotto di 1,5 °C… e a quanto pare già quest’anno siamo andati sopra.
Ed ecco pronta un’altra COP ospitata da un paese la cui economia è fondata sui combustibili fossili.
Di male in peggio quindi

L’anno scorso avevo sottolineato che anche la COP28 a Dubai era fortemente inquinata (l’allusione è voluta) dal fatto che il paese ospitante fosse uno dei principali produttori di petrolio al mondo, e soprattutto che la strategia dei Paesi arabi mira chiaramente a massimizzare lo sfruttamento delle considerevoli riserve petrolifere, rappresentanti oltre la metà delle risorse globali, finché il mercato del greggio mantiene la sua rilevanza e prima che sia gradualmente sostituito. La COP28 finì quasi in clamoroso fiasco, nonostante le dichiarazioni che furono annunciate entusiasticamente, e cosa ci fu allora di meglio a provarlo se non le parole dall’emiro Sultan Al Jaber, leader degli Emirati Arabi Uniti. “Torneremo alle caverne” disse, con un malcelato sottinteso, ovvero “se non si continuerà ad usare combustibili fossili”, regresso a cominciare dai Paesi arabi a cui resterebbe ben poco da offrire.

Gli Stati Uniti, assenti e con Trump neo(ri)eletto, sono già in odore di uscire da qualsiasi accordo climatico. Per il presidente USA il cambiamento climatico è una bufala. E ho detto tutto.
Sulla Cina, anch’essa assente, andrei più cauto. È vero che è attualmente il maggior produttore di CO2 (non storicamente, lì il triste primato è tutto americano) ma è altrettanto vero che il grande paese ha un piano ambizioso di decarbonizzazione che, per quanto se ne sa, ha avviato da tempo e intende rispettare.

Insomma, a Baku è un déjà–vu: allarmi, promesse, ipocrisie e il solito capro espiatorio. Mentre ancora contavano i voti in Minnesota, Trump era già indicato come uno dei colpevoli del fallimento della COP29. È vero, il predecessore e il successore di Biden ha promesso che, come ho scritto poco fa, farà uscire gli USA dall’Accordo di Parigi, ma è un pezzo ormai che le COP ostentano autolesionismo e si sabotano da sole.
Con uno schema ripetuto e collaudato si passerà attraverso le previsioni catastrofiche, e lungi da me dal fare appunto catastrofismo, di esempi ne abbiamo a iosa, al messaggio in stile last generation con ultimatum alla Terra tirando in ballo i soliti tipping points (altro argomento trattato più volte), fino ad arrivare alle grandi promesse durante le discussioni che quasi H24 terranno impegnati i presenti. Un accordo ci sarà, sarebbe troppo vergognoso uscirne senza ma, ancora una volta al ribasso, tanto si avrà modo di tornarci su, si dicono. Un indicatore di quel che davvero pensano i leader mondiali del cambiamento climatico.
Almeno fino alla prossima COP, perché come avevo detto su queste stesse pagine per la COP26 nel 2022, prendendola forse troppo seriamente, ce ne sarà un’altra. Purtroppo?
Ci sono altri grandi assenti. Joe Biden, Ursula von der Leyen, Emmanuel Macron, Narendra Modi, Olaf Scholz e Xi Jinping non presenzieranno e Giorgia Meloni farà un passaggio obbligato dal suo momentaneo ruolo di capo del G7. Assente persino Luiz Inácio Lula da Silva, il Presidente del Brasile che ospiterà la prossima COP. Le banche? Assenti. I petrolieri? Tutti presenti!

Il Presidente della COP, Mukhtar Babayev, risiede stabilmente da decenni nella compagnia petrolifera statale Socar, e molti osservatori sostengono che l’obiettivo dell’Azerbaigian in questi giorni è trovare accordi per aumentare le proprie esportazioni di gas all’estero; grottesco vero? Ma già visto l’anno scorso a Dubai. E come dimenticare il dettaglio, e non è un segreto per nessuno, che l’Azerbaigian sta ospitando la COP per ripulirsi l’immagine a livello internazionale, dopo l’invasione del Nagorno-Karabakh e numerose violazioni dei diritti umani denunciate anche dal Parlamento Europeo? (sull’eterno conflitto tra armeni e azeri suggerisco il bel video di Stefano Tiozzo).

Ma fare promesse, tutte in odore di greenwashing è facile. A proposito di verde, avete notato la scelta strategica del colore dato all’evento azero? Un bel verde… speranza!
Tanto sarà stata colpa di Trump, almeno per i prossimi quattro anni. Lungi da me sostenere il tycoon e la sua politica ma qualcuno si è accorto che durante il suo primo mandato presidenziale le emissioni di carbonio pro capite degli Stati Uniti sono scese dalle 16,1 tonnellate a persona del 2016 alle 14,9 del 2021? E che il suo principale sponsor elettorale, Elon Musk, sia uno dei più importanti produttori di auto elettriche al mondo? Ancora una volta, grottesco.

Con il disimpegno americano dall’Accordo di Parigi sarà chiaro a tutti quello che già è noto: nel mondo quasi nessuno ha intenzione di sacrificare la crescita economica e industriale per raggiungere obiettivi totalmente arbitrari con mezzi costosissimi.
Questa COP era un fallimento certificato prima ancora di iniziare

Il cambiamento climatico è innanzi tutto un problema di ordine sociale, con implicazioni drammatiche per una parte gigantesca dell’umanità. Quella parte da sempre ignorata dell’umanità. Ciò che una volta veniva chiamato sud (globale) del Mondo e che ora, a comprendere minoranze che non necessariamente vivono a sud dell’Equatore ed altre comunità emarginate, è stato chiamato MAPA, Most Affected People and Areas.
Le parole rivolte ai partecipanti alla COP29 da parte del Card. Pietro Parolin, Segretario di Stato del Vaticano, ne amplificano la portata: “Quando si parla di finanziamenti per il clima, è importante ricordare che il debito ecologico e il debito estero sono due facce della stessa medaglia, che ipotecano il futuro”. E ancora, ricordando le parole del Papa: “Le nazioni più ricche riconoscano la gravità di tante decisioni prese e stabiliscano di condonare i debiti di Paesi che mai potrebbero ripagarli. Prima che di magnanimità, è una questione di giustizia, aggravata oggi da una nuova forma di iniquità di cui ci siamo resi consapevoli: c’è infatti un vero «debito ecologico», soprattutto tra il Nord e il Sud, connesso a squilibri commerciali con conseguenze in ambito ecologico, come pure all’uso sproporzionato delle risorse naturali compiuto storicamente da alcuni Paesi”.
Una prova, tra le tante. L’1% più ricco della popolazione mondiale (rapporto Oxfam «Climate Equality», novembre 2023) è responsabile del 16% delle emissioni globali di carbonio. Lo stesso quantitativo prodotto dal 66% più povero dell’umanità. Un altro indicatore dello stile di vita insostenibile.
Così come finora i paesi ricchi, che sono anche i più inquinanti, non hanno pagato nessun extra per tentare di ridistribuire la ricchezza e migliorare la vita della maggioranza dell’umanità, questi stessi paesi non hanno realmente intenzione di pagare quel che anni fa, nel suo libro sul clima, Bill Gates (molto più esperto ed attento di quanto si ritenga) ha definito Green Premium.
Un’azione climatica davvero efficace deve introdurre e partire dalla più grande delle emergenze: le disuguaglianze economiche. Omettere dal quadro generale tutti gli aspetti di giustizia sociale e redistribuzione delle risorse non porta da nessuna parte. Se l’umanità non capirà che la transizione energetica è innanzi tutto un problema sociale non sarà mai davvero conscia della gravità del cambiamento climatico.

Concedetemi un’ultima osservazione sul ruolo, ad oggi, delle rinnovabili. Anche ammettendo che i 3870 GW (fonte: IRENA, marzo 2024) di energia prodotta da fonti esclusivamente rinnovabili sono molti, con il fotovoltaico che rappresenta ad oggi quasi i tre quarti del totale, resta il problema chiave. Non è energia che ha sostituito le fonti fossili, ma energia che si è aggiunta allo status quo. E ciò non significa transizione.
[ Giacomo Milazzo ]
Responsabile rubrica «La scienza e la tecnica raccontate» di Sigea (Società Italiana di Geologia Ambientale)
Note
► FRAME PER GRAFICO INTERATTIVO EQUIVALENTE A FIG. 6
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► FRAME PER GRAFICO INTERATTIVO EQUIVALENTE A FIG. 9
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