Con la demolizione dell’ultimo altoforno si è chiusa un’epoca, ma Piombino non ha trovato un futuro. Tra bonifiche rimaste sulla carta, progetti industriali incerti e la presenza ingombrante del rigassificatore Italis LNG, la città toscana vive in bilico tra la memoria siderurgica e un presente fatto di precarietà, conflitti ambientali e scelte imposte dall’alto
Il crollo dell’altoforno Afo-4, nel maggio 2024, ha segnato un passaggio epocale. Per decenni quella torre di 90 metri aveva rappresentato il cuore della siderurgia nazionale, producendo acciaio per treni e navi. La sua demolizione ha chiuso simbolicamente l’epoca della grande industria pubblica, ma ha lasciato dietro di sé un paesaggio ferito, fatto di aree contaminate e un mare compromesso da scorie, fanghi e metalli pesanti. Piombino convive dunque con un’eredità ingombrante: i dati sanitari raccolti negli ultimi anni confermano un eccesso di tumori polmonari, malattie cardiovascolari e casi di mesotelioma legati all’amianto. Le malformazioni congenite superano di gran lunga la media regionale e la mortalità generale è più alta rispetto al resto della Toscana. Tutto questo in un territorio dove gli ospedali faticano a reggere e le bonifiche annunciate da tempo restano un miraggio.
Sul piano industriale la città non ha trovato un vero riscatto. Dopo l’arrivo del gruppo indiano JSW nel 2018, la produzione si è ridotta al minimo e oltre 1.000 operai sono rimasti sospesi in una cassa integrazione senza fine. Nel 2025 è stato presentato un progetto da 2,5 miliardi di euro per costruire una nuova acciaieria elettrica, grazie a una partnership tra la multinazionale ucraina Metinvest e l’italiana Danieli. L’iniziativa promette 1.100 posti di lavoro, con priorità agli ex dipendenti, ma in molti dubitano che gli impegni saranno rispettati. A pesare è soprattutto l’assenza di una vera regia italiana: il futuro della siderurgia nazionale continua a dipendere da decisioni estere e da equilibri geopolitici poco trasparenti.
Parallelamente, il porto della città ospita dal 2023 la nave rigassificatrice Italis LNG, ex Golar Tundra, lunga quasi 300 metri e destinata a trasformare gas liquefatto in metano per la rete nazionale. Si tratta di un’infrastruttura imposta in tempi rapidi sull’onda della crisi energetica post-2022, ma il cui impatto suscita ancora oggi interrogativi profondi, spesso sottovalutati.
Cinque contributi recenti hanno analizzato da diversi punti di vista le criticità della FSRU. Il primo, pubblicato il 29 luglio, ha messo in luce le deroghe normative con cui l’impianto è stato autorizzato: mancato rispetto della normativa Seveso, carenze di trasparenza, assenza di un reale processo di partecipazione pubblica e la decisione di collocare un terminale ad alto rischio industriale in un porto commerciale già congestionato e vicino al centro abitato.
Il secondo contributo, uscito il 5 agosto, si è concentrato sugli aspetti tecnici e sulla vulnerabilità delle unità di stoccaggio e rigassificazione galleggianti, richiamando rischi legati a collisioni, eventi climatici estremi, minacce ibride e attacchi cibernetici. L’articolo ha evidenziato la necessità di una governance multilivello, in cui anche NATO e Unione Europea abbiano un ruolo attivo nella protezione degli asset energetici strategici.
L’8 agosto, un ulteriore contributo ha messo a confronto Piombino con Taranto, dove è previsto un impianto analogo a supporto della decarbonizzazione dell’ex-ILVA. Le criticità di Piombino risultano addirittura maggiori: porto ridotto, traffico commerciale e turistico intenso, vicinanza alle abitazioni e condizioni meteomarine spesso ventose. Non si tratta di opporre le due realtà, ma di sottolineare la mancanza di criteri coerenti e trasparenti nelle decisioni del Governo.
Un quarto contributo, pubblicato il 19 agosto, ha proposto invece una via alternativa: spostare i rigassificatori offshore. Lo studio ha quantificato i costi sociali nascosti delle attuali installazioni (195 milioni di euro l’anno) e ha stimato i benefici economici di localizzazioni in Adriatico e Tirreno, con un valore netto superiore a 8,9 miliardi in 25 anni e ricadute occupazionali e di PIL significative. L’analisi conclude che le soluzioni offshore eliminerebbero i rischi per le popolazioni costiere e garantirebbero maggiore sostenibilità di lungo periodo.
Infine, un’intervista rilasciata a RVS il 31 luglio, ha sottolineato il ruolo della consapevolezza pubblica su questi temi, invitando a superare l’approccio emergenziale e a passare a una pianificazione trasparente e condivisa. Nella stessa occasione è stato segnalato un ulteriore problema locale: lo sversamento in mare di candeggina attraverso un circuito aperto collegato alla nave.
Nonostante le perplessità sollevate da studi e inchieste, il rigassificatore resta in funzione. Nel marzo 2025, l’Autorità di regolazione (ARERA) ha chiarito che la nave non è necessaria né in Toscana né altrove, vista la riduzione della domanda nazionale di gas (-19% dal 2021). Lo spostamento ipotizzato a Vado Ligure è stato bocciato, e l’Italia continua a mantenere in funzione un impianto che risponde più a logiche geopolitiche che a reali esigenze energetiche. A livello europeo, l’accordo tra Stati Uniti e Unione Europea sugli acquisti di energia americana spinge il nostro Paese a consolidare il ruolo di hub del GNL, trasformando Piombino in una pedina di un disegno internazionale che guarda poco alle necessità del territorio.
Il caso di Piombino mostra quanto fragile sia la capacità del Paese di coniugare sviluppo industriale, sicurezza energetica e tutela dei territori. La demolizione dell’altoforno e l’arrivo del rigassificatore hanno reso evidente un modello di decisioni non coordinate e spesso imposte, in cui la comunità locale resta spettatrice. Senza una pianificazione industriale chiara, senza bonifiche credibili e senza un vero coinvolgimento delle istituzioni locali, Piombino rischia di rimanere un esempio negativo di come l’Italia gestisce i nodi strategici del proprio futuro.
[ Alessandra Vitale ]