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Presente e futuro dei biocarburanti

di Vito Pignatelli • Definiti dalla Commissione Europea gli unici sostituti oggi disponibili dei combustibili fossili nei trasporti, i biocarburanti puntano a coprire, nel 2020, il 10% dei consumi energetici totali del settore

 

Quando si parla di consumi energetici, legando quasi sempre l’argomento alla fortissima dipendenza del nostro Paese dai combustibili fossili, petrolio e gas naturale, importati per la maggior parte da aree geografiche caratterizzate da forti tensioni e/o instabilità politica (85,6% nel 2008, a fronte di un valore medio nell’Unione Europea prossimo al 56%), il pensiero va subito alla richiesta di energia da parte dei settori civile e industriale e, conseguentemente, alle relative problematiche di produzione e distribuzione.

In realtà, ad un esame appena più approfondito, si scopre che consumi energetici altrettanto, se non più rilevanti, si riscontrano anche in altri settori, come ad esempio quello dei trasporti. Infatti, i consumi energetici per il trasporto di persone e merci sono da molti anni maggiori di quelli del settore industriale e di quello terziario e residenziale, e quasi uguali a quelli richiesti dalla produzione di elettricità, come si può vedere dal grafico riportato nella figura 1, relativa ai consumi finali di energia per settore nel 2007 [Fonte: ENEA, Rapporto Energia e Ambiente 2007-2008].

A differenza di altri settori, però, i trasporti dipendono quasi totalmente (97-98%) dai combustibili fossili, al punto da essere da soli responsabili del 53,2% dei consumi petroliferi nazionali (dato 2007).

 

Ricadute ambientali dei combustibili fossili

Il consumo di quantitativi così rilevanti di combustibili fossili ha, come diretta conseguenza, un forte impatto ambientale sia in termini di inquinamento locale (il traffico è di gran lunga la maggior fonte di inquinamento delle nostre aree urbane) sia, a livello globale, relativamente alle emissioni di gas ad effetto serra, in primo luogo CO2, e una simile situazione ha immediate ripercussioni nel mancato rispetto, non solo da parte del nostro Paese, di una «tabella di marcia» che possa consentire di raggiungere gli obiettivi di riduzione delle emissioni di gas serra stabiliti con il Protocollo di Kyoto.

Il problema è estremamente complesso e la sua soluzione richiede ovviamente l’adozione di diverse misure, a partire dall’incremento della quota di trasporto pubblico rispetto a quello privato e dalla progressiva sostituzione degli autoveicoli più vecchi con nuovi mezzi in grado di consumare sempre meno e di assicurare livelli di emissioni sempre più bassi a parità di chilometraggio percorso, per arrivare alla sostituzione di quote progressivamente maggiori di benzina, gasolio ed altri prodotti di origine fossile con combustibili e/o altre energie rinnovabili, ed in particolare con i cosiddetti «biocarburanti », intendendo con questo termine un insieme ampio e diversificato di prodotti liquidi o gassosi ottenuti a partire dalle biomasse.

La risposta più immediata

Infatti, pur nella consapevolezza della diseconomia determinata dai maggiori costi di produzione dei biocarburanti rispetto alle fonti fossili (petrolio, gas naturale, ma anche – e questo viene quasi sempre sottaciuto – carbone, dal quale è possibile ottenere benzina e gasolio sintetici in quantità con processi ben conosciuti e utilizzabili su scala industriale), è evidente che, in attesa di una nuova generazione di automezzi a trazione elettrica e della maturità tecnologica della produzione di idrogeno da fonti rinnovabili e del suo impiego diffuso negli autoveicoli, “I biocarburanti costituiscono oggi l’unico sostituto diretto dei combustibili fossili nel settore dei trasporti disponibile su scala significativa” [Fonte: Commissione Europea – Biofuels Progress Report, gennaio 2007].

Partendo da questo presupposto, l’Unione Europea ha avviato un ambizioso programma a sostegno dei biocarburanti, a partire dall’emanazione della Direttiva n. 2003/30/CE dell’8 maggio 2003, che prevedeva il raggiungimento per ogni Stato membro di obiettivi indicativi di sostituzione dei carburanti derivanti dal petrolio con biocarburanti e/o altri carburanti da fonti rinnovabili per una quota pari al 2% (sulla base del contenuto energetico) nel 2005 fino al 5,75% nel 2010, fino alla recente emanazione della Direttiva n. 2009/28/CE sulla promozione dell’uso dell’energia da fonti rinnovabili, che stabilisce l’obbligo di copertura, al 2020, del 10% dei consumi energetici del settore dei trasporti con biocarburanti, elettricità e idrogeno.

La produzione di biocarburanti rappresenta in molti Paesi europei ed extraeuropei una realtà diffusa e consolidata da diversi anni ed alimenta un mercato in continua espansione (figura 2), ma, allo stato attuale della tecnologia, gli unici biocarburanti prodotti e utilizzati su larga scala sono gli oli vegetali, impiegati direttamente come tali – in genere per l’alimentazione di macchine agricole -, o trasformati chimicamente in una miscela di esteri metilici meglio conosciuta con il nome di biodiesel, e l’etanolo – o bioetanolo – e i suoi derivati di sintesi ETBE (Etere etil ter-butilico, considerato come biocarburante per il 47% in peso, corrispondente al contenuto in etanolo) e TAEE (Etere etil ter-amilico), ai quali si è aggiunto negli ultimi anni il biometano, ottenuto a partire dal biogas prodotto dalla fermentazione anaerobica di reflui zootecnici, residui e scarti agroindustriali e colture dedicate (mais), utilizzato prevalentemente per l’alimentazione di autobus adibiti al trasporto pubblico.

 

 

Tutti i biocarburanti liquidi attualmente prodotti e distribuiti su larga scala sono ricavati a partire da colture ben note: oleaginose come colza, soia, girasole e palma da olio o zuccherine come mais, grano, barbabietola e canna da zucchero. Si tratta in tutti i casi di colture largamente diffuse e utilizzate prevalentemente a fini alimentari, sia nel nostro Paese che in altri contesti europei ed extra-europei.

Una tecnologia all’altezza delle aspettative

Le tecnologie di conversione utilizzate per produrre i biocarburanti attualmente in commercio si possono considerare «mature» – anche se suscettibili di miglioramenti, in particolare per quel che riguarda i consumi energetici – e pienamente affidabili dal punto di vista industriale e gli impianti produttivi sono quasi sempre di grandi o grandissime dimensioni per sfruttare al meglio le economie di scala.

L’attuale tendenza ad incorporare percentuali crescenti (ma, tutto sommato, limitate) di questi prodotti in benzina e gasolio va incontro all’esigenza delle Case automobilistiche di non modificare i motori e/o altre componenti degli autoveicoli e a quella dei produttori di carburanti di assicurare la piena «fungibilità » dei combustibili in vendita nella rete di distribuzione stradale (un qualsiasi autoveicolo deve poter passare senza problemi dall’uso di una miscela contenente biocarburanti a quello del combustibile fossile puro e viceversa) e, tutto sommato, anche a quella del sistema agricolo di diversificare le proprie produzioni e di utilizzare i terreni non più destinabili in modo economicamente conveniente alla produzione di risorse alimentari. Ovviamente, questa convergenza di interessi è valida solo fino ad un certo punto, corrispondente ad un livello di sostituzione stimabile intorno al 5-10% perché percentuali maggiori darebbero luogo – almeno con alcune tipologie di biocarburanti, come l’etanolo – a problemi di natura tecnica e, soprattutto, rischierebbero di alimentare un possibile conflitto, efficacemente sintetizzato dalla domanda «Cibo o combustibile?» per la destinazione finale dei terreni e dei prodotti agricoli.

Se però, in un contesto di nuove e più forti esigenze di diversificazione delle fonti energetiche e di contenimento delle emissioni di gas responsabili dell’effetto serra, si dovesse decidere di introdurre sul mercato quantitativi di biocarburanti maggiori, allora la duplice esigenza di ridurre significativamente i costi di produzione e di ottimizzare l’uso del territorio, in modo da non dar vita ad una pericolosa competizione con le produzioni alimentari, imporrebbe lo sviluppo di filiere produttive alternative alle attuali per ottenere nuovi tipi di biocarburanti diversi da quelli oggi presenti sul mercato, comunemente indicati come «biocarburanti di seconda generazione».

Biocarburanti di seconda generazione

Questa comune denominazione raggruppa in realtà una gamma piuttosto ampia e diversificata di prodotti, ottenibili da diverse materie prime con una varietà di processi, a diversi stadi di sviluppo (dal laboratorio all’impianto dimostrativo precommerciale), ma nessuno ancora presente sul mercato in quantità significative (tabella 1), al punto che la citata Direttiva 2009/28/CE non da’ una definizione vera e propria di «seconda generazione », ma parla genericamente di «biocarburanti prodotti a partire da rifiuti, residui, materie cellulosiche non alimentari e materiali lignocellulosici» e di «futuri biocarburanti non presenti sul mercato o presenti sul mercato solo in quantità trascurabili al gennaio 2008».

 

 

I principali esempi di questi biocarburanti sono:

• il gasolio sintetico da biomassa (FT-liquids), il dimetil-etere (DME), il bio-metanolo e le miscele di alcoli ed altri composti organici ossigenati ottenuti via gassificazione e sintesi catalitica, genericamente indicati come BTL (Biomass to liquids) fuels. Nel primo caso, la produzione del biocarburante viene effettuata con processi analoghi alla sintesi di Fischer- Tropsch, utilizzati per la produzione di carburanti sintetici da carbone, e la tecnologia è ormai allo stadio di impianto dimostrativo pre-commerciale (il primo impianto di questo tipo, della Società tedesca Choren AG, è stato inaugurato a Freiberg dal Cancelliere Angela Merkel il 17 aprile 2008). Gli altri processi sono attualmente oggetto di sperimentazione a livello di laboratorio o impianti di piccola scala;

• il biodiesel di nuova generazione, meglio noto come hydrodiesel o greendiesel, ottenuto per idrogenazione catalitica di oli e grassi vegetali e animali, anche con caratteristiche chimico-fisiche tali da renderli inadatti alla produzione di biodiesel convenzionale, o da processi di pirolisi rapida (liquefazione ad alta temperatura in difetto o assenza di ossigeno) e di biomasse lignocellulosiche e successivo «reforming» del liquido ottenuto (il cosiddetto Bio-olio). Nel caso specifico della prima tecnologia, sviluppata da alcune compagnie petrolifere (tra cui l’italiana ENI), è più corretto parlare di un biocarburante «ibrido» fra la prima e la seconda generazione, considerando che si tratta di un prodotto per il quale sono già in fase di avvio della produzione o in fase avanzata di realizzazione alcuni impianti industriali di grandi dimensioni.

La tecnologia della pirolisi è invece ancora in fase sperimentale;

• l’etanolo ottenuto da processi biotecnologici di idrolisi enzimatica di materiali lignocellulosici e successiva (o contemporanea) fermentazione degli zuccheri ottenuti dalle componenti cellulosa ed emicellulose, oggetto di ricerca e sperimentazione, fino alla realizzazione di impianti dimostrativi, già dalla seconda metà degli anni ’70. Questa tecnologia è attualmente al centro di un rinnovato interesse da parte della comunità scientifica internazionale e di alcuni grandi produttori industriali del settore chimico-energetico fra cui, in Italia, il Gruppo Mossi&Ghisolfi che ha intenzione di costruire nel 2010 il primo impianto europeo per la produzione di etanolo da cellulosa;

• i biocombustibili (biolio e biodiesel) ottenuti a partire dall’olio prodotto e accumulato da colture di microalghe, oggetto di numerose attività di ricerca sperimentale (figura 3), ma ancora lontani da possibili applicazioni industriali in quanto, per ottenere produzioni significative, le estensioni ed i volumi di tali coltivazioni devono raggiungere valori ragguardevoli, dell’ordine minimo di svariati ettari, e quindi tali da porre, oltre ai problemi di natura tecnologica e di bilanci energetici ed economici, anche una serie di pressioni sull’ambiente ospitante le coltivazioni e su quello circostante.

 

 

Denominatore comune di queste filiere è l’utilizzazione, come materia prima, di substrati generalmente non utilizzabili a fini alimentari (materiali lignocellulosici, oli e grassi non commestibili ecc.) o prodotti comunque in aree diverse da quelle tradizionalmente destinate alle produzioni agricole convenzionali (microalghe). Oltre a non rappresentare quindi un possibile motivo di competizione con le produzioni alimentari, i biocarburanti di seconda generazione sono caratterizzati da una maggiore capacità di contribuire, per unità di combustibile fossile sostituito, alla riduzione delle emissioni di gas ad effetto serra, se si considera l’intero ciclo di vita della relativa filiera produttiva. Nel caso specifico delle colture da biomassa, ad esempio, è noto che già oggi la produttività per ettaro è molto più elevata rispetto a quella dei cereali o delle oleaginose – oltretutto con minori consumi idrici e richieste di fertilizzanti e pesticidi – e che, in ogni caso, i processi di conversione in biocarburanti di seconda generazione consentono di utilizzare una frazione maggiore della biomassa prodotta o addirittura l’intera pianta, cosa che si traduce immediatamente in bilanci energetici ed ambientali molto più vantaggiosi rispetto a quelli dei corrispondenti biocarburanti attualmente in uso (figure 3 e 4). È proprio per questa ragione che, ai fini del contributo al raggiungimento degli obblighi di incorporazione (10% al 2020) previsti dalla Direttiva 2009/28/CE, i quantitativi di questi prodotti saranno conteggiati con un valore doppio rispetto a quelli dei biocarburanti tradizionali.

 

 

Al di là delle critiche, a volte strumentali, di chi prefigura un contrasto insanabile fra la produzione di cibo e quella di energia, è pertanto evidente che un approccio corretto e ragionevole al problema della produzione di sempre maggiori quantitativi di biocarburanti necessita di una particolare attenzione verso tutti quegli elementi che costituiscono i presupposti indispensabili per garantire l’effettiva sostenibilità delle relative filiere produttive e, in un simile contesto, il mondo della ricerca, pubblica e privata, è chiamato a dare un significativo contributo all’individuazione e allo sviluppo di nuove vie, nella prospettiva del superamento dei limiti della situazione attuale.

Vito Pignatelli

Gruppo Sistemi Vegetali per Prodotti Industriali, ENEA
Presidente ITABIA (Italian Biomass Association)